Serie A, Calcio-Napoli e Mondiali 2014: parla Mr Luis Vinicio

Luis Vinicio ai tempi in cui giocava in Serie A col Vicenza (foto: www.wikipedia.org)

Ricordi della Serie A, catenaccio e calcio totale, ruolo dell’attaccante, progetto-De Laurentiis e Mondiali di Brasile 2014. Questi i temi principali della nostra intervista in esclusiva a Luis Vinicius de Menezes, 82 anni, meglio noto come Vinicio, brasiliano di Belo Horizonte e residente a Napoli in zona Posillipo, un’icona del calcio italiano sia nel ruolo di attaccante (155 gol in 13 campionati di Serie A tra il 1955 e il 1968 e titolo di capocannoniere nel 1965-66 con 25 reti), che in quello allenatore (vincitore di una Coppa Italia con il Napoli nel 1975-76 e artefice di una miracolosa salvezza centrata in “A” con l’Avellino nel 1980-81 partendo da una penalizzazione di -5). A 46 anni dalla sua ultima stagione da calciatore (in serie A con la maglia del Vicenza) e a 22 dalla sua ultima da allenatore (salvezza ottenuta in C2 con la Juve Stabia), Vinicio ancora oggi resta un punto di riferimento per tutti gli amanti di questo sport, sia se si focalizza l’attenzione sull’universo degli attaccanti stranieri giunti in Italia che se si guarda alle sue intuizioni da uomo della panchina.             

Mr Vinicio, nell’attuale Serie A c’è, oggi, qualcosa che è rimasto uguale rispetto ai tempi in cui giocava lei?

“Per me, che sono spettatore, è molto difficile fare questo discorso. Il calcio, però, rimane sempre bello, solo che ci vogliono i protagonisti giusti per renderlo tale. A volte, ancora oggi, ci sono gare belle da vedere e altre che si fa fatica a guardarle fino al termine.  Certamente questo sport è cambiato molto nella preparazione, nella velocità, nel fattore atletico. Oggi si bada maggiormente ad allungare il più possibile la carriera di un calciatore. Poi va detto che, quando giocavo io, il calcio era racchiuso soprattutto in due aree geografiche: Sud America ed Europa. Negli ultimi 50 anni, invece, grazie anche alla spinta della Tv e degli altri mezzi di comunicazione, è diventato ormai uno sport estremamente diffuso e praticato in tutti e 5 i continenti”.

Lei è stato capocannoniere del campionato di Serie A 1965-66 con la maglia del Vicenza. All’epoca ha stabilito un record di 25 reti eguagliato dall’olandese Marco Van Basten con la maglia del Milan soltanto nella stagione 1991-92. In quali aspetti è cambiato, nello specifico, il ruolo dell’attaccante negli ultimi decenni e in cosa è rimasto uguale?  

“Così come ai miei tempi, l’attaccante, pur rimanendo nel gruppo un calciatore come gli altri, resta il più blasonato, quello sul quale è maggiormente puntata l’attenzione, perché il suo obiettivo principale è quello di segnare. E ognuno cerca di farlo con le proprie caratteristiche. Ricordo che, quando giocavo in Serie A, ero facilitato rispetto ad oggi, perché il calcio italiano mi consentiva di stare soprattutto in avanti, dove dovevo vedermela con il marcatore dietro di me e con il libero avversario. In sostanza, però, era un calcio un po’ troppo chiuso. Oggi, invece, gli attaccanti sono più completi, perché partecipano di più al gioco della squadra, facendo anche la fase difensiva. E io, quando negli anni successivi ho cominciato ad allenare in Italia, ho cercato di aprire un po’ questa mentalità eccessivamente ‘catenacciara’, introducendo in Serie A, col mio Napoli, il cosiddetto concetto di calcio totale reso famoso dagli olandesi negli anni ‘70”.

Ciro Immobile, capocannoniere con 22 reti nella stagione di Serie A appena conclusa e definito ‘attaccante moderno’, è stato ingaggiato da una delle squadre più forti d’Europa: il Borussia Dortmund. Come vede questo trasferimento  del bomber napoletano dalla “A” alla Bundes Liga?

“Penso che potrà fare molto bene in Germania. Rispetto a quando giocava qualche anno fa nel Pescara, Ciro, grazie anche al lavoro effettuato negli ultimi mesi al Torino con Mr Ventura, sta mostrando le giuste caratteristiche che deve avere una punta nel calcio di oggi. Entrando, poi, a far parte di un’ottima squadra, sarà sicuramente facilitato anche nel fare cose importanti”.

Lei, grazie al suo ruolo di calciatore (prima) e di allenatore (poi), è entrato in contatto sia con alcune “grandi piazze” che con realtà cosiddette “di provincia” del calcio italiano. Dove si è sentito maggiormente a suo agio ? E per quali motivi?

“Io ho cercato di dare sempre il massimo in ogni città in cui ho lavorato. Poi la storia del calcio, con i suoi dati, fa emergere quello che  si è riusciti a fare meglio e quello che si è fatto meno bene. Io sono molto contento di aver contribuito a scrivere alcune pagine del calcio italiano; però, in tutta sincerità, devo dire che a Napoli ho vissuto, da allenatore, dei momenti particolari. Quando ho guidato i partenopei  sono riuscito ad esprimere, con la mia squadra, un gioco che in Serie A era praticamente sconosciuto. Ho introdotto concetti come la difesa a 4 in linea, facendo in modo che tutti i calciatori partecipassero, con intelligenza, al gioco del collettivo e non limitassero il loro raggio d’azione solo a determinate zone del campo. Da allora sono passati 40 anni e oggi vedo che alcuni miei concetti di calcio ormai sono adottati da tutti gli allenatori. Col tempo, infatti, si è visto che, se si riesce a giocare in un certo modo, si hanno grandi vantaggi. Con quella squadra siamo andati vicinissimi a vincere il primo scudetto nella storia della città di Napoli, un titolo sfumato nella stagione 1974-75 solo per una sconfitta contro la Juventus maturata fuori casa al 93° minuto, anche se l’anno successivo abbiamo vinto la Coppa Italia. E ancora oggi, a distanza di 40 anni e dopo scudetti e coppe vinte nell’ era Maradona, alcune persone di una certa età che m’incontrano per le strade di Napoli mi dicono che la squadra che allenavo io era addirittura più spettacolare di quella che ha vinto coppe e scudetti negli anni Ottanta: spontanee attestazioni di stima che per me contano molto…”.

Nella stagione 1976-77 il Napoli, allenato quell’anno da Bruno Pesaola, arrivò alle semifinali della Coppa delle Coppe: un risultato mai raggiunto fino ad allora dal club azzurro nelle competizioni Uefa. Quanto pensa che ci sia stato “di suo” nelle prestazioni internazionali di una squadra che nei tre anni precedenti aveva assimilato il modo di intendere il calcio di Luis Vinicio?

“Naturalmente non era la mia squadra, ma qualcosa di mio sicuramente c’era. In quegli anni ho portato a Napoli calciatori sconosciuti al grande pubblico, quali Clerici e Boccolini, e ho inserito con ottimi risultati alcuni ragazzi dell’allora squadra Primavera”.

A proposito di ‘calcio totale’, le faccio un nome e un cognome: Arrigo Sacchi.

“Ricordo che, quando portavo il mio Napoli in ritiro precampionato al Ciocco, Arrigo, che all’epoca studiava per diventare allenatore di calcio, mi chiese di poter osservare i miei metodi di allenamento. Io, naturalmente, non mi posi alcun problema e fui molto disponibile con lui”.

Restiamo sul tema del “Calcio-Napoli”. Il primo decennio dell’era De Laurentiis (2004-2014) è andato in archivio. Lei, nel frattempo, da napoletano ormai acquisito, potrebbe dirci che idea si è fatto di questo nuovo progetto?

“De Laurentiis si sta dimostrando un personaggio all’altezza. E’ riuscito ad attuare un buon processo di trasformazione sia a livello di società, cercando di proiettarla in una dimensione internazionale, sia in ambito di squadra, inserendo man mano i giocatori giusti e, grazie ad intelligenti operazioni di mercato, è riuscito a portare questo Napoli ad alti livelli. E penso che questa squadra, se viene rinforzata con 2-3 elementi di qualità, può puntare tranquillamente allo Scudetto”.

Quali sarebbero i settori in cui si dovrebbe intervenire ?

“Se fossi l’allenatore del Napoli, farei giocare sempre Insigne e Mertens, spostando il belga nel ruolo di terzino e tenendo il ragazzo di Frattamaggiore in una posizione un po’ più avanzata. Insigne quest’anno in alcune partite è stato un po’ sacrificato, però io penso che è in crescita costante e andrebbe utilizzato il più possibile. Poi servirebbero un altro terzino destro, in grado di essere determinante sia in fase difensiva che offensiva, e un centrale di difesa importante. Henrique, tatticamente molto duttile, lo farei giocare in mediana con Jorginho. L’attacco, invece, è già ora, a mio avviso, il migliore esistente in Serie A”.

Secondo lei l’attuale allenatore del Napoli Rafa Benitez è sulla buona strada?

“Certamente, del resto ha anche buoni elementi a disposizione”.         

Secondo i dati diffusi dalla libera enciclopedia digitale Wikipedia, uno dei primi 7 siti internet più visitati al mondo, lei risulterebbe il 5° attaccante straniero per numero di gol segnati in Serie A (dietro soltanto a Nordal, Altafini, Hamrin e Batistuta) e il 21° in assoluto nella storia del massimo campionato di calcio italiano. Se poi andiamo ad analizzare la media delle reti rispetto alle partite disputate, il suo quoziente di 0.45 è addirittura migliore rispetto a calciatori quali Filippo Inzaghi, Roberto Pruzzo, Roberto Bettega, Gianluca Vialli, Paolo Pulici, Pierino Prati, Peppe Savoldi, Alessandro Altobelli, Alberto Gilardino, Francesco Totti e Alex Del Piero.  Col suo stesso coefficiente ci sono invece Roberto Baggio, Hernan Crespo e Roberto Boninsegna. Che effetto le fanno questi ‘numeri’ a  46 anni di distanza dalla sua ultima partita disputata in “A” ?

“La ringrazio di questa notizia. Nessuno mai, prima di lei, mi aveva informato di queste cose che, naturalmente, mi fanno enormemente piacere”.

Lei di recente è stato in Brasile, la sua terra natia. Quali sono le sue considerazioni in merito alla macchina-organizzativa dei campionati del Mondo ormai alle porte ?

“State tutti tranquilli, perché l’organizzazione sarà eccezionale. I cittadini hanno fatto delle rimostranze perché, in un Paese in cui ci sono alcune fasce di povertà, probabilmente sono stati spesi troppi soldi per ammodernare gli stadi. Forse in qualche caso si poteva spendere un po’ di meno, destinando tali risorse alle persone che vivono in condizioni difficili. Però, per quello che ho notato io in ambito complessivo durante l’ultimo viaggio, debbo dire una cosa. In Brasile, finché ci saranno il calcio e il carnevale, ci sarà sempre grande vitalità”.

Mr Vinicio, nella storia dei Mondiali solo in due circostanze (Svezia 1958 e Giappone-Corea 2002) la Coppa è stata vinta da una formazione proveniente da una nazione con un fuso orario marcatamente differente rispetto a quello in cui si sono disputate le partite. E, in entrambe le circostanze, ha vinto il Brasile… Reputa che ciò sia avvenuto ‘per caso’, come si suol dire, o ci sono motivi ben più importanti alla base di questi successi?

“Guardi, io penso che nel calcio in generale, e in particolare in un Mondiale, il caso…non esiste. Vince sempre la squadra più preparata”.

I fattori climatici e la complessa situazione logistica saranno elementi che potranno influire, secondo lei, sul risultato finale?

“Non saranno di primaria importanza per determinare la vittoria, perché, chi saprà veramente giocare al calcio, alla fine vincerà il titolo”.

Quali sono le squadre favorite, secondo Lei, in questa rassegna brasiliana?

“Non si possono fare oggi questi discorsi. Dobbiamo solo gustarci il Mondiale partita dopo partita e sono convinto che anche stavolta vincerà la squadra più forte”.

Ultima domanda. Luis Vinicio e la nazionale brasiliana: quale rapporto?

“Poco prima dei Mondiali del 1950 avevo 17 anni e fui scelto tra i 40 pre-convocati, ma poi fui escluso dalla lista finale dei 22. Nelle rassegne successive invece non fui mai chiamato perché all’epoca il calcio era diverso da oggi. Una volta venuto in Italia, i selezionatori brasiliani ebbero grosse difficoltà a tenere il polso della situazione rispetto alle mie prestazioni in campo. L’Europa, che distava 15 giorni di nave dal nostro Paese, era un altro mondo. E poi all’epoca non c’erano Tv e Internet, mezzi attraverso i quali oggi si è in grado di tenere tutto sotto controllo, anche a distanza di migliaia di kilometri. Però voglio specificare che in tal senso non ho nessun rimpianto, perché sono ancora oggi molto contento di aver scelto l’Italia, e Napoli in particolare, per vivere la mia vita”.  

Luigi Gallucci

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