Massimiliano Esposito: nel grande calcio, a un passo dalla gloria

Padova, luglio 2025: da sinistra, il direttore di Sportflash24.it Luigi Gallucci e Massimiliano Esposito, ex calciatore, in Serie A, con le maglie di Napoli, Lazio, Reggiana, Brescia, Perugia e Chievo Verona e attuale proprietario della scuola calcio “Sacra Famiglia” in terra euganea. (Foto: Sportflash24.it)

Nell’ambito di un’intervista in esclusiva, Max Esposito si sofferma con il nostro direttore sull’epopea del Napoli di De Laurentiis e su una serie di aspetti di quel foot-ball che, nel periodo a cavallo tra i due millenni, vedeva l’Italia dettare legge in ambito europeo e intercontinentale.

Massimiliano Esposito, oggi cinquantatreenne proprietario e direttore della scuola calcio padovana “Sacra Famiglia”, è il classico giocatore napoletano arrivato al professionismo con talento e sudore. E ancora oggi, tra tifosi e addetti ai lavori resta la sensazione che molto probabilmente il grande Max sia in credito con la sorte. Non sarebbe l’unico, naturalmente, in quanto nel foot-ball di storie come le sue ce ne sono tante. Emblematico, però, in tale contesto, è un frangente-chiave. Nel suo anno migliore, il 1994, Max è nel giro della Nazionale ma non riesce a presentarsi al raduno di settembre, perché a fine agosto rimane vittima di un fastidiosissimo infortunio muscolare. L’inconveniente fisico gli crea, successivamente, qualche problema in termini di continuità di rendimento, ma, poiché la classe non è acqua, riesce a disputare comunque 13 campionati consecutivi tra massima serie e cadetteria. Nello specifico, quattro stagioni in Serie A, dall’agosto 1993 al maggio 1997, con Reggiana, Lazio e Napoli, poi un biennio in “B”, tra l’autunno 1997 e il giugno 1999, con Hellas Verona e Napoli, un ulteriore triennio in “A”, tra l’estate 1999 e la primavera 2002, con Perugia, Brescia e Chievo Verona, e, infine, dall’agosto 2002 al giugno 2006, altre 4 stagioni in Serie B, tra Ternana, Venezia e Triestina. In relazione alle sole gare di campionato, le statistiche indicano 172 presenze e 16 gol in Serie A e 121 convocazioni e 12 reti in “B”. Nel suo curriculum da uomo di calcio, anche un’esperienza nel Beach Soccer, ambito nel quale nel 2008 vince sia una Coppa Italia col club “Coil Lignano Sabbiadoro” sia la medaglia d’argento con la nazionale italiana ai campionati mondiali disputati a Marsiglia.  Ed è con lui, persona che “mastica calcio” da oltre 40 anni, che la redazione di Sportflash24 sceglie non solo di analizzare l’epopea del Napoli di De Laurentiis ma anche di focalizzare una serie di aspetti di quel foot-ball che, nel periodo a cavallo tra i due millenni, vedeva l’Italia dettare legge in ambito europeo e intercontinentale.

La 1^ domanda è d’obbligo. Dove e quando ha cominciato a giocare a calcio Massimiliano Esposito?

“Io, come tutti i ragazzini napoletani nati nel secolo scorso, ho iniziato per strada. A Napoli il campetto era quello che veniva improvvisato, di volta in volta, sotto casa, tra i vicoli di Materdei. Come “porte”, usavamo temporaneamente 4 sacchetti di spazzatura indifferenziata. Per rendere meglio d’idea del ‘presepe’, va aggiunto che in alcuni punti c’erano anche auto parcheggiate ai lati della strada e, quindi, bisognava stare attenti a non tirare pallonate sulle vetture; però c’era anche un vantaggio. Potevamo utilizzare i cerchioni delle ruote per una sorta di 1-2, dai e vai, tipo sponde. Praticamente, erano le mie prime triangolazioni. All’epoca, avevo circa 8-9 anni. Poi i miei genitori, per togliermi dalla strada e dai connessi rischi, mi iscrissero alla scuola calcio diretta da Gianni Improta e dai suoi familiari a Posillipo. Era il 1981. Lì sono stato 3-4 anni. Poi, dato che il “baronetto” era anche direttore sportivo del Catanzaro, decise di portare in prova 4 o cinque di noi in Calabria. E così, a circa 14 anni andai via da Napoli. Nel club giallorosso sono stato 5 anni. Nei primi 3 ho fatto la trafila nelle squadre giovanili, dalla categoria Allievi alla Primavera. Gli ultimi 2, invece, li ho giocati con la prima squadra, in Serie C2. Ed era già professionismo”.

Dopo Catanzaro, l’esplosione a Reggio Emilia, in una Reggiana neopromossa in Serie A e guidata dall’esperto Pippo Marchioro. Come è nata la scintilla tra lei e il tecnico milanese?

“In verità, Marchioro ricevette da un dirigente del Catanzaro una cassetta VHS da videoregistratore, tipica degli anni ‘80-‘90. Arrivai a Reggio nel 1993 e, non avendo ancora un procuratore, strinsi un accordo sulla parola con l’esperto dirigente Franco Dal Cin. Poco dopo, ascoltando un po’ di persone più navigate, sia del Catanzaro sia del club Granata, accettai di essere seguito da Silvano Martina, che si occupò di me come procuratore. Fu così che, con la collaborazione dell’ex portiere del Genoa, decidemmo di firmare un accordo di 4 anni. Il primo contratto base era di circa tre milioni al mese di vecchie lire, con bonus che scattavano in base alle partite che sarei riuscito a giocare e ai gol che avrei segnato. Ricordo che, dopo le prime 10 gare disputate, scattò il primo bonus e con quei soldi regalai, a mio padre Antonio e a mia madre Assunta, un’auto Fiat, nuova e spaziosa”.

Quale fu la più grande abilità di Marchioro, secondo lei?

“Quella di creare un funzionale mix tra giovani di talento e calciatori di esperienza, tra cui Taffarel, Gigi De Agostini, Beppe Scienza, Dario Morello, Dorin Mateut e Michele Padovano. La Rosa non era stata progettata ex novo per la Serie A, anche se ci furono dei nuovi arrivati, tra cui io, lo svedese Johnny Ekstrom e il fuoriclasse Paolo Futre”.

A proposito, perché il forte Ekstrom non riuscì a rendere come tutti si auspicavano?

“Lui era un po’ macchinoso nei movimenti e in Serie A soffriva le difese dell’epoca. Ecco perché non riuscì a dare ciò che ci si aspettava in zona gol. Padovano, invece, era in un gran momento di forma”.

Quella squadra soffrì tanto nelle cifre dell’attacco, secondo peggiore del campionato, soprattutto perché, oltre che sul mancato rendimento di Ekstrom, non poté contare sull’apporto di Futre, il quale il 21 novembre 1993, in Reggiana-Cremonese 2-0, esordì in “A”, segnò da fuoriclasse e s’infortunò gravemente. A questo punto, sarebbe interessante se lei ci raccontasse il modo in cui la squadra riuscì a superare questo doppio handicap.

“L’elemento principale, che ci permise di sopperire alle lacune, fu la capacità di Marchioro di essere all’avanguardia nel concepire il calcio. Egli in allenamento creava le condizioni affinché noi la domenica potessimo ‘disegnare’ in attacco, al di là dei gol realizzati o meno, geometrie ancora oggi validissime. A tutto ciò si aggiunga il fatto che era riuscito a disporci in modo molto compatto in fase di non possesso palla, la qual cosa ci permise di essere una tra le migliori difese del torneo. Inoltre, un suo grande merito fu quello di farci vivere lo spogliatoio come se fosse una vera e propria famiglia. E ricordo che, quando Futre s’infortunò, quello spirito di squadra, che ormai si era instaurato tra noi, ci rese ancora più compatti, sia dentro sia fuori dal campo. E ancora oggi i legami di amicizia tra noi sono rimasti”.

E a quel punto, infortunatosi Futre, Marchioro puntò molto su di lei per cercare di dare impulso alla fase offensiva…

“Sì, da quel momento in poi anche io giocai molti più minuti e, oltre a dare una mano alla squadra nelle due fasi di gioco, tra marzo e maggio 1994 riuscii a segnare anche le mie prime 5 reti in Serie A, che furono abbastanza pesanti ai fini della salvezza, l’unica conquistata dalla Reggiana nella storia della Serie A con girone unico. Si può tranquillamente affermare che uscimmo dalle difficoltà con impegno, compattezza e talento”.

Tra i suoi gol ce ne sono alcuni di qualità assoluta: di esterno destro a rientrare e anche di interno destro a giro. Insomma, robe alla Del Piero, in modo tale da dare qualche riferimento alle giovani generazioni. Come nascono realizzazioni di questa portata tecnica?

“I tiri con effetto a rientrare nascono dalla mia esperienza a Catanzaro. Nel settore giovanile avevamo un allenatore, Franco Cittadino, il quale, al termine di ogni seduta di lavoro, mi faceva provare, in particolare, il tiro a giro di collo esterno. Oggi in tanti, per quel tipo di esecuzione, ricordano, magari, le punizioni di Roberto Carlos, ma quello che io feci in Milan-Reggiana 0-1 aveva un coefficiente di difficoltà ancora superiore, perché Scienza mi mise un pallone in area di rigore e io calciai di prima, prendendo il tempo ai difensori rossoneri e indovinando una traiettoria straordinaria. Ricordo che, per prima cosa, andai a esultare verso il settore curva, dove in quella giornata del 1° maggio erano arrivati ben 10mila tifosi granata. Fu un momento storico e posso dire che ancora oggi ogni 1° maggio vado a Reggio per incontrare gli amici e festeggiare la prima e unica salvezza ottenuta dal club emiliano in Serie A”.

Cosa accadde, invece, nell’annata successiva 1994-95?

“Semplicemente, non fu costruito un gruppo finalizzato a migliorare il 14° posto del precedente campionato. In quegli anni lì, il livello della nostra Serie A, che dominava anche nelle competizioni Uefa, era davvero pazzesco. E purtroppo la Reggiana non aveva gli strumenti per reggere il confronto con le altre contendenti per la salvezza.  E quindi, come spesso accade in Italia, il primo a pagarne ingiustamente le conseguenze fu l’allenatore Marchioro, che venne esonerato dopo poche giornate”.

Nel 1995 la squadra retrocesse in Serie B, ma lei fece il salto in un Top Club, la Lazio.

“Mr Zdenek Zeman, che già mi stimava tanto sin dai tempi in cui giocavo col Catanzaro in C2, mi volle tra le fila dei biancocelesti e firmammo un contratto di ben 5 anni. La mia partenza da titolare, nella prima di campionato all’Olimpico, per certi aspetti sorprese anche me, in quanto, contro l’avversario di turno, il Piacenza, segnai addirittura 2 dei 4 gol della Lazio. Gli altri li realizzarono Beppe Signori e Pierluigi Casiraghi. Insomma, meglio non avrei potuto cominciare. Eppure, si trattava di una squadra in cui, su 11 titolari, tra italiani e stranieri 10 erano praticamente nel giro delle Nazionali. Del resto, io stesso ebbi una pre-convocazione da parte dell’allora commissario tecnico Arrigo Sacchi, ma purtroppo non potei rispondere alla chiamata in Azzurro, perché sempre a fine agosto, all’esordio in Coppa Italia contro il Chievo, mi infortunai al muscolo flessore. E pur recuperando la guarigione da un punto di vista medico dopo un mese, le sensazioni in campo non erano quelle che avrei voluto percepire. Purtroppo, quel problema mi penalizzò, per i successivi 2-3 anni, soprattutto nello scatto, una delle mie caratteristiche principali”.

E così l’anno successivo, nella stagione 1996-97, Max decise di tornare a Napoli, vestendo la maglia della sua squadra del cuore…

“Eh, Zeman non riusciva a spiegarsi il motivo per il quale io avevo deciso di trasferirmi al Napoli. Così gli dissi che, dopo esser stato per 8 anni lontano dalla mia città, avevo proprio voglia di tornarmene a casa. E poiché ‘al cor non si comanda’, come direbbe il Poeta, anziché riflettere sulle problematiche societarie che già in quella fase stava affrontando il nostro Napoli, decisi di fare questo passo”.

Fu un’annata tra le più strane e contraddittorie della storia del club partenopeo. In Serie A, prime 14 giornate in lotta per lo scudetto con Juve e Vicenza e poi crollo verticale nel girone di ritorno con 13° posto finale. A corollario, squadra finalista perdente in Coppa Italia proprio contro il team berico. Furono 10 mesi intensi, vietati ai cosiddetti malati di cuore…

Innanzitutto, tengo a evidenziare che di quella Coppa Italia conservo ancora la medaglia d’argento. Arrivare a giocare una finale è già un merito. E quindi sono fiero di essere sceso in campo, così come in quasi tutte le precedenti partite, e di aver segnato in Brianza il gol che, nella nostra gara d’ esordio nel torneo, ci permise di eliminare il Monza. Per quanto riguarda il campionato, che già all’epoca assegnava 3 punti per ogni vittoria, la situazione fu la seguente. La squadra, agli ordini di mr Gigi Simoni, tecnico esperto, era ben assortita e riuscì a fare 23 punti in 14 gare, praticamente una media da Champions-Scudetto, diremmo oggi. Poi, con l’anno nuovo, iniziarono a emergere dissidi forti tra Simoni e i dirigenti del Napoli in prospettiva futura. E noi, a livello psicologico, risentimmo di questa situazione e ne pagammo le conseguenze sul campo, con un girone di ritorno di segno totalmente negativo. La flessione, tra l’altro, ci portò anche a doverci guardare indietro, perché era molto accesa la lotta per non retrocedere. E in quella delicata fase la fortuna fu che in squadra c’erano ancora molti giocatori che avevano attaccamento per la maglia azzurra: io, Raffaele Di Fusco, Pino Taglialatela, Nicola Caccia, Luca Altomare, Raffaele Longo, Arturo Di Napoli e Fabio Pecchia. Fummo noi a far capire agli altri l’importanza di lottare fino all’ultimo, nonostante i problemi, per non dare ai tanti tifosi il dolore di una retrocessione. E fu così che non solo concludemmo la stagione mantenendo la categoria, ma riuscimmo anche a toglierci la soddisfazione di eliminare l’Inter in semifinale di Coppa Italia…”.

A proposito, quel trofeo sembrava nelle vostre mani dopo il successo per 1-0 al San Paolo nell’Andata della finale. Poi, però, al Menti, nel match di ritorno, il Vicenza prima pareggiò i conti e poi vi strappò la coppa ai tempi supplementari. Cosa fece la differenza in Veneto il 29 maggio 1997?

“Il Vicenza affrontò la gara con una determinazione e un entusiasmo che noi, invece, non avevamo. Resta in me la convinzione che quello era un gruppo che avrebbe potuto esprimere di più, in termini di risultati. Purtroppo, la situazione di difficoltà, in cui già allora versava il club, non favorì un clima ottimale per il raggiungimento dei traguardi sognati e sperati”.   

Nell’annata successiva Max Esposito si trasferì in Serie B, in prestito all’Hellas Verona. Come mai?

“Nella fase preparatoria della stagione 1997-98, spiegai all’allora direttore generale Ottavio Bianchi che io non intendevo vivere un campionato col concreto rischio di retrocedere in Serie B con la maglia del mio Napoli, cosa che puntualmente avvenne! E a quel punto si fece avanti il Verona allenato dall’ottimo Gigi Cagni, un mister che mi stimava molto sin dai tempi in cui col mio gol al Meazza nel 1994 condannai il ‘suo’ Piacenza alla retrocessione in cadetteria. Fu un campionato tutto sommato buono, in quanto chiudemmo al 7° posto”.

Poi, però, nella stagione 1998-99 in B ci giocò di nuovo, ma con il Napoli retrocesso…

“Eravamo partiti con il dovere morale di riportare subito la squadra in Serie A, ma quel gruppo non aveva, nel complesso, i mezzi tecnici per puntare alla promozione e finimmo al 9° posto. Mr Renzo Ulivieri portò con sé esperienza calcistica. A livello umano era un ‘duro’, come si suol dire, ma forse era un po’ troppo schematico. A margine, ricordo con curiosità il fatto che, al pari di molti napoletani, anche lui era un tipo scaramantico, in quanto si faceva preparare sempre le cose allo stesso modo”.  

Nell’annata successiva, 1999-2000, mentre il Napoli allenato in cadetteria da Novellino riuscì a riagguantare la massima serie, lei giocò in “A” col Perugia. Presidente di quel club era Luciano Gaucci. L’ultima partita, Perugia-Juve 1-0 del 14 maggio 2000, ancora oggi fa discutere i tifosi da bar per delle leggende che girano soprattutto in relazione a dinamiche di spogliatoio…

In estate arrivò Novellino. Parlai col nuovo mister azzurro e mi disse che, per quanto riguardava i titolari, puntava su altri giocatori. E a quel punto mi diressi altrove. E così da un Napoli in “B” mi ritrovai in “A” col Perugia di mr Carletto Mazzone e collezionai 27 presenze. In rosa c’erano anche Marco Materazzi, Nicola Amoruso, Nakata…   Ci piazzammo al decimo posto, nonostante avessimo perso tre delle ultime 4 partite. L’ultima con la Juve, allo stadio Curi, si disputò sotto una pioggia battente. Ai bianconeri quella sconfitta costò lo scudetto, che andò alla Lazio. La piazza juventina se la prese con mr Carlo Ancelotti, che fu ingiustamente crocifisso, ma la realtà era diversa. La Juve perse quello scudetto perché in campo i giocatori erano cotti, come si suol dire. Le racconto un caso emblematico. In mediana, Edgard Davids di solito era un motorino infaticabile, ma quel giorno era irriconoscibile. E se non ne aveva lui, figuriamoci gli altri. Sono cose che a fine stagione possono accadere”.

E arriviamo alla parentesi col Brescia, neopromosso in A insieme a Napoli, Atalanta e Vicenza. Mr Mazzone, chiamato a guidare la panchina delle Rondinelle, la ritiene un tassello indispensabile. A quel punto, piuttosto che restare alle dipendenze di un fibrillante di Gaucci, meglio partire per una nuova esperienza, la prima in un club della Lombardia.

“Nel campionato 2000-01, a Brescia ho giocato con Filippo Galli, Daniele Bonera, Roberto Baggio, il capocannoniere del campionato Dario Humber, Andrea Pirlo, Igli Tare e poi a luglio 2001 sono arrivati anche Luca Toni e Pep Guardiola. Il primo anno riuscimmo a stabilire il record con l’8° posto e il miglior piazzamento del Brescia nella storia della Serie A, un risultato che ci aprì le porte per la qualificazione a uno storico tabellone di Intertoto Uefa 2001, in cui superammo all’esordio una squadra ungherese (Tatabanja, N.d.R), in semifinale una formazione ceca (Chmel Blsany, N.d.R) e fummo eliminati solo nel round finale dal Paris Saint Germain, dopo due pareggi (0-0 in Francia e 1-1 al Rigamonti). In pratica, soltanto la ormai abolita regola del maggior numero di reti segnate in trasferta permise al PSG di accedere al tabellone di Coppa Uefa 2001-02. Anche in Coppa Italia avemmo un ottimo percorso e, dopo aver sconfitto a sorpresa la Juve negli Ottavi, ci fermò ai Quarti la Fiorentina, vincitrice del trofeo in finale contro il Parma. Poi a inizio 2002 tornai a Verona, ma in prestito e come rinforzo di un neopromosso Chievo che stava battagliando addirittura in zona Champions. Alla fine, con mr Del Neri arrivammo comunque a ottenere uno storico 5° posto e una qualificazione al tabellone principale di Coppa Uefa 2002-03. Anche quella fu una bella esperienza, con giocatori quali Simone Perrotta, Nicola Legrottaglie, Eugenio Corini, Massimo Marazzina e un dirigente davvero speciale, Giovanni Sartori, fine conoscitore di calcio, uomo di poche parole ma estremamente concreto”.

Arrivato alla soglia dei 30 anni, quali obiettivi si pose Max Esposito?

“Diciamo che in quella fase, sia pur in modo velato, cominciava a delinearsi un po’ il mio futuro. Le esperienze con Brescia e Chievo Verona, ad esempio, mi fornirono un interessantissimo bagaglio di esperienza non solo a livello tecnico, ma anche sotto l’aspetto della gestione di un club di calcio; principi che ancora oggi mi sono estremamente utili nel mio ruolo di proprietario e allenatore della scuola calcio Sacra Famiglia qui a Padova”.

E sul campo come andò?

“Ebbi la possibilità di giocare altre 5 stagioni in club professionistici che avevano ambizioni di Serie A, vedi Ternana, Venezia e Triestina, ma non riuscimmo a raggiungere l’obiettivo sperato. Con la Ternana, però, sfiorammo, la promozione nel 2003-04, quando arrivammo settimi dietro la Fiorentina, che a sua volta salì sull’ultimo ‘treno per la A’ dopo uno storico e vittorioso spareggio interdivisionale col Perugia, quart’ultimo in massima serie. Quello fu l’unico campionato cadetto che permise di promuovere 6 squadre in Serie A. Dalla stagione successiva, 2004-05, la Serie A salì da 18 a 20 club e così è rimasta fino a oggi”.

Lei ha avuto molti allenatori, ma, se dovesse indicare i suoi padri adottivi, quali nomi farebbe?

“Sicuramente Pippo Marchioro, per la capacità di ottimizzare le qualità tecniche e umane di un gruppo, ma anche Zdenek Zeman, che per me è il “papà” del 4-3-3. Alla Lazio, nonostante non sia riuscito a esprimermi al massimo per il suddetto infortunio, ho toccato con mano questa sua metodologia in grado di abbinare risultato calcistico e spettacolo. Inoltre, anche con Gigi Cagni, all’Hellas Verona, mi sono trovato molto bene. Lui, italianista convinto, sul campo riusciva a incidere tanto, perché aveva un data-base molto ampio e a ognuno di noi spiegava quali situazioni ci saremmo potuti trovare di fronte in partita, di volta in volta. In pratica, conosceva le caratteristiche di tutti i giocatori che settimanalmente andavamo ad affrontare. E questa non era una cosa da poco, specialmente in un’epoca in cui internet non era la miniera di informazioni che è oggi”.

E a livello umano con chi si è trovato meglio?

“Marchioro e Carletto Mazzone, decisamente. Zeman, sotto questo aspetto, viveva un po’ avulso dal gruppo squadra. A livello di dirigenti, invece, oltre che con Sartori mi sono trovato molto bene con Edo Piovani, team manager del Brescia. Altre due persone con cui ho legato tanto sono state l’ex dirigente del Napoli Gigi Pavarese e il massaggiatore Salvatore Carmando: due grandi figure, professionali e umane, con cui ancora oggi sono in contatto”.

Alla Lazio ha conosciuto l’allora presidente onorario, la leggenda Dino Zoff, capitano campione del Mondo 1982 in Spagna. Che ricordo ha?

“Stare a contatto con lui è stato davvero emozionante. E poi, ogni volta che gli chiedevo qualcosa, aveva sempre il consiglio giusto da darmi”.

E quando gli comunicò che per lei era diventato un po’ pesante lavorare con Zeman nella fase post infortunio e che desiderava tornare a Napoli dopo quasi 10 anni di lontananza dalla sua città e dai suoi cari?

“Lui mi disse: ‘Ricorda, i presidenti restano. Gli allenatori vanno’. Era un modo per invitarmi a restare lì con loro e aspettare momenti più propizi. Era un consiglio giusto anche quello, ma ormai avevo deciso…”.

Tra i suoi presidenti, per una stagione c’è stato anche Luciano Gaucci. Che tipo era?

“Focoso e funambolico nel suo modo di fare. Nel calcio era una sorta di mina vagante. Per fortuna, all’epoca avevo Mazzone che proteggeva me e tutto il gruppo rispetto alle sue bizzarrie”.

Potrebbe raccontarci qualche aneddoto?

“Prima della partita Perugia-Juve 1-0, venne nello spogliatoio e ci disse che, se non avessimo fatto il nostro dovere, ci avrebbe portato in Cina… Mazzone, udite queste parole, ribatté con una determinazione estrema. Innanzitutto, lo invitò ad accomodarsi fuori. Poi si rivolse a noi e ci tranquillizzò così: ‘Pensate a giocare, che a fine partita andremo tutti regolarmente a casa’. E così fu”.

Anno 2004: mentre lei a Terni vive momenti nei quali spera di poter tornare in “A” da giocatore, Aurelio De Laurentiis rileva la proprietà del Calcio Napoli dalle mani del tribunale fallimentare. Cosa pensa il tifoso partenopeo Max Esposito sia durante quel burocratico passaggio di consegne sia nei mesi immediatamente successivi?

“Pur riconoscendogli i sacrifici fatti per salvare il club, inizialmente non condividevo alcune sue scelte. Poi, però, col passare delle stagioni ho cominciato a pensare che la sua visione del calcio fosse davvero quella giusta e vincente. E infatti, dopo la rapida risalita dalla ‘C1’ alla ‘A’ tra il 2004 e il 2007, sono arrivate le 3 coppe Italia, la supercoppa nazionale, molti significativi secondi e terzi posti in campionato e infine, negli ultimi 3 campionati, 2 storici scudetti”.

Quanto è stato importante, per De Laurentiis, stare in contatto, negli ultimi 20 anni, con uomini di calcio come  Marino, Reja, Mazzarri, Benitez, Sarri, Ancelotti, Gattuso e Spalletti per poter poi arrivare a conquistare il suo primo scudetto da presidente?

“La sua bravura è stata proprio questa: da storico imprenditore proveniente da tutt’altro settore, il cinema, ha scelto negli anni persone molto competenti di calcio. E stando a contatto con loro, è riuscito ad alzare, giorno dopo giorno, la propria asticella, intesa come conoscenza (ed esperienza) di ciò che riguarda il calcio nella sua complessità. E poi va evidenziato che è riuscito a fare tutto questo senza mai superare i limiti di una corretta gestione del bilancio. Rimanere in saldo positivo dopo 20 anni e due scudetti vinti è un qualcosa che non è riuscito a fare nemmeno l’ingegner Ferlaino. Complimenti a lui”.         

Passare dal Tricolore stravinto con mr Spalletti a quello conquistato con mr Conte è stato, per il presidente Aurelio De Laurentiis, un percorso abbastanza breve ma estremamente accidentato…

“Per certi versi, è accaduto qualcosa di simile rispetto a quanto avvenne nel ‘nostro’ Napoli allenato da Gigi Simoni. La volontà di un allenatore di non confermare il proprio ruolo su una determinata panchina in relazione alla stagione successiva può risultare un elemento fortemente destabilizzante per l’equilibrio di uno spogliatoio, di una tifoseria e anche di un club. E quando ciò accade, non sempre si riesce a trovare la soluzione giusta. E infatti il Napoli di De Laurentiis, dopo la volontaria uscita di scena di Spalletti, non è stato in grado di reagire con delle scelte lucide sotto il profilo della continuità tecnica. E il tutto è sfociato in un avvicendamento di 3 allenatori in una stagione conclusa con un deludente 10° posto in campionato”.

Diciamo che la batosta dell’annata 2023-24 è servita al presidente neo-scudettato. E come spesso accade nella vita, anche in questo caso la sconfitta ha insegnato più della vittoria…

“Avendo avuto tempo e lucidità per mettere a fuoco gli errori, a quel punto De Laurentiis ha indirizzato tutti i suoi sforzi per portare a Napoli Antonio Conte, che oggettivamente è il top per quello che riguarda gli allenatori italiani. E così è accaduto che un gruppo-squadra complessivamente meno forte, secondo me, di quelli che avevano avuto a disposizione sia Spalletti sia i suoi tre successori (Rudi Garcia, Walter Mazzarri e Francesco Calzona) è riuscito in un’impresa clamorosa, che è andata oltre le previsioni e le aspettative di numerosissimi addetti ai lavori”.

Cosa ha fatto la differenza tra il Napoli e le avversarie nell’ultimo campionato di Serie A 2024-25?

“La mentalità propositiva trasferita da Conte ai giocatori. Non si sono mai arresi, mai realmente disuniti, nonostante le difficoltà: vedi l’inizio zoppicante a Verona, la sconfitta interna contro l’Atalanta, la partenza di Kvaratskhelia a gennaio, la serie di infortuni che ha colpito la Rosa soprattutto durante il delicatissimo girone di ritorno”.

Possiamo dire, in termini matematici, che Kvara sta allo scudetto del 2023 come McTominay a quello del 2025?

“Poiché sono stati eletti entrambi ‘migliori giocatori del campionato Lega Serie A’, certamente entrambi gli apporti sono stati notevoli, ma c’è un però…”.

Cioè?

“Da ex giocatore di centro-attacco, debbo marcare una differenzia in favore di Scott. Il suo gol in semi-rovesciata contro il Cagliari all’ultima e decisiva giornata per me è stato di un coefficiente di difficoltà superiore a quello segnato all’Atalanta da Kvara al ‘Maradona’, nella partita che nel marzo 2023 segnò un ulteriore allungo degli azzurri sulle già distanziate inseguitrici. Innanzitutto, c’è da considerare l’aspetto psicologico. Un conto è eseguire una prodezza quando si è primi in classifica con tanti punti di vantaggio sugli avversari e un altro lo è quando si è agli ultimi 90 minuti del campionato e ogni errore, ogni pallone tirato male, può influire negativamente sullo stato mentale di giocatori attesi all’impresa da decine di milioni di tifosi sparsi nel mondo. E poi c’è l’aspetto cosiddetto ‘balistico’. A mio avviso, è ben più complicato effettuare una semirovesciata, al volo e vincente, sul cross di un compagno, partendo in una posizione di spalle alla porta e con un avversario che cerca astutamente di contrastarti, piuttosto che una giocata in cui si dimostra di essere …scaltri nel seguire l’azione del compagno assist-man, molto abili nell’effettuare finte e controfinte sui difensori e, infine, precisi al tiro con una traiettoria che, però, data la dinamica dell’azione, è ormai abbastanza ben delineata. Tutto qui. Quindi, grande Kvara, ma ancor più grande Scott”.

Quali sono i prossimi obiettivi che può porsi, realisticamente, il Napoli nel calcio di oggi?

“Oggi il Napoli, per la grande capacità di trionfare senza fare debiti, deve essere considerato un modello internazionale nel ‘saper fare calcio’. E in campo, grazie alla conferma di mr Conte in panchina e ai rinforzi che stanno arrivando attraverso il mercato estivo 2025, secondo me può dare fastidio a molti club e su più fronti, anche se, a mio avviso, l’obiettivo primario della stagione 2025-26 sarà quello di dare il massimo in Champions, senza dimenticare che c’è comunque uno scudetto da difendere”.

A proposito di Champions League, come ha archiviato Max Esposito il ko tecnico subito dall’Inter nella finale 2024-25 contro il PSG?

“Purtroppo, quando si prende gol nei primi momenti di una partita di quella portata, i giocatori possono entrare in una sfera psicologica negativa che – da sola – è in grado di mandare completamente in tilt il piano-gara preparato dall’allenatore. E se a ciò si aggiunge che l’Inter ha dovuto affrontare, nell’ultima stagione, 4 competizioni tutte molto tirate, allora si comprende che lo 0-5 subito a Monaco di Baviera può essere stato anche frutto della stanchezza dei giocatori”.    

Nell’avviarci a conclusione di questa intervista, torniamo per un attimo al Max adolescente. E quindi… la domanda nasce spontanea, direbbe Antonio Lubrano: quando Massimiliano Esposito ha capito che poteva realizzare il sogno di diventare calciatore professionista?

“Sicuramente durante il primo anno a Reggio Emilia. Passare, nel giro di qualche mese, dalla serie C2 alla A e riuscire a diventare addirittura uno dei protagonisti di una storica salvezza è stato un qualcosa di cruciale. È stata una fase che mi ha fatto capire che per me il calcio non sarebbe stato più soltanto un gioco”.

Massimiliano Esposito, oltre 15 anni nel calcio professionistico e una marea di persone conosciute tra nord, centro e sud Italia. Cosa le resta di questo lungo viaggio tra club e campi di Serie A, B e C?

“Le sensazioni sono sicuramente positive. E oggi vivo determinati ricordi e contatti in modo molto più consapevole rispetto a quando ci sono state le varie esperienze di campo. Posso dire che adesso mi rendo realmente conto di ciò che ho costruito nel mio lungo percorso.  E aggiungo che ogni compagno di squadra, ogni allenatore, ogni dirigente e ogni presidente mi ha trasmesso qualcosa. E in questo mi piace includere anche quei tifosi che talvolta mi hanno criticato in maniera educata. E poi c’è una cosa che mi rende più orgoglioso di qualsiasi altra”.

Quale?

“Quello di essere stato invitato a far parte del gruppo delle ‘LEGGENDE del calcio Napoli’ dall’ideatore di questo progetto, Alessandro Picardi, tra l’altro un manager di altissimo profilo istituzionale. E, se me lo consente, per me è un grandissimo onore poter rispondere presente alle iniziative che man mano vengono messe in calendario”.
Luigi Gallucci

 

 

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