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- Giovanni Bruno, 69 anni, genitori originari di Chiaia, nascita anagrafica e formazione scolastica capitoline, vacanze assidue in costiera sorrentina, ufficio a Milano e cuore calcistico dichiaratamente partenopeo, analizza con noi le due epoche d’oro del calcio Napoli, quella ‘maradoniana’ e quella ‘aureliana’. “Quando abbiamo vinto il primo scudetto, era nato da pochissimo il mio 1° figlio – afferma con orgoglio – e l’ho fotografato facendogli reggere con le manine la prima pagina della ‘Gazzetta dello Sport’. Quando mi è nato il 2°, abbiamo trionfato in Coppa Uefa”.
Giornalista sin dagli anni Settanta, Bruno collabora inizialmente con le riviste “Mare 2000” e “Yatching italiano”. Nel 1982 fa le sue prime apparizioni in RAI come commentatore di vela e nel 1983, alla 25^ America’s Cup, segue le performance dell’imbarcazione “Azzurra”, team di cui diventa anche capo ufficio stampa. Alla tv di Stato, però, in quel periodo è anche tra i collaboratori della storica trasmissione “La Domenica Sportiva”, mentre per “TELEMONTECARLO” cura rubriche sugli “altri sport”. A gennaio 1987, al termine della 26^ Coppa America, Bruno passa ai canali berlusconiani e, in quello stesso anno, entra temporaneamente in orbita Fininvest anche l’emittente “KOPER CAPODISTRIA”. Per il canale televisivo transfrontaliero, è proprio Giovanni Bruno a curare il notiziario giornaliero “Sport Time” e la rubrica “Obiettivo sci” con il Maestro Mario Cotelli. A inizio anni Novanta, restando nel gruppo Mediaset, crea su Italia 1 il tg sportivo “Studio Sport”. Inoltre, nel 1991, è anche responsabile e capostruttura al Giro d’Italia, nota corsa ciclistica internazionale a tappe trasmessa quell’anno, in esclusiva, proprio dai canali Fininvest. Nel 1997, torna alla tv di Stato, in qualità di redattore capo centrale di Rai Sport, su chiamata dell’allora direttore Marino Bartoletti, e nel 1999 ne diventa massimo responsabile. Nel 2003, cambia nuovamente redazione, diventando il 1° primo direttore della storia di Sky Sport (testata per la quale, da allora e per circa 15 anni, ricopre vari ruoli di responsabilità). Dal 2018 a oggi, gli vengono affidati a Sky Sport gli incarichi di editorialista e opinionista e le telecronache di vela. A tutt’oggi, Giovanni Bruno è anche direttore editoriale di “EQUtv”, emittente tematica sull’ippica. In pratica, Giovanni, dal Mondiale di calcio 1982 a oggi, tra presenze negli studi tv italiani e nelle postazioni di commento sui luoghi di gara, segue tutti i grandi eventi sportivi nazionali e internazionali, comprese le olimpiadi estive e invernali.
Direttore Bruno, come e dove ha festeggiato i 4 scudetti?
“I primi due, in ufficio a Mediaset, con grandissima soddisfazione, perché ovviamente lì era Casa Milan. Che divertimento festeggiare gridando per i corridoi battute tipo ‘Amaro Ramaccioni’, nonostante buona parte del personale fosse ‘pro-Milan’. E poi ricordo tanti momenti al telefono con mio padre, che era in casa a Roma. Gli ultimi due li ho festeggiati a Sky, in redazione. Lì, però, mi occupavo anche di dare indicazioni sulle persone da intervistare e i luoghi da filmare. A parte ciò, son dovuto andare in studio a spiegare la crescita di Napoli anche nei festeggiamenti, del perché a Napoli si gioiva di sola spontaneità nel periodo di Maradona e del perché, durante le celebrazioni popolari del 2023 e del 2025, c’è stato il giusto mix tra ordine, compostezza ed entusiasmo ai massimi livelli”.
Come hanno reagito i suoi colleghi di Sky Sport quando, lo scorso 24 maggio, “La Gazzetta dello Sport” ha titolato “Regno di Napoli”?
“Con quelli di origini napoletane ci siamo abbracciati, con gli altri tutto questo trasporto emozionale non c’è stato, però tutti hanno riconosciuto le mosse azzeccate di De Laurentiis e di Conte nell’ultima annata. In tutti c’è la consapevolezza di una grande bellezza costruita negli anni dal presidente e dai suoi principali collaboratori”.  
Cosa sta rappresentando il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, dal 2004 a oggi, per la città di Napoli, per il calcio italiano e per il foot ball internazionale?
“Sono 21 anni di consapevolezza di una persona che, facendo il paragone con la vela, dal 2004 a oggi sta ricoprendo il doppio ruolo di skipper e armatore. La sua ‘barca’ negli anni cambia timoniere, prodiere, membri dell’equipaggio, ma lui resta saldamente armatore in tutti i momenti. Con vento debole o forte, lui c’è sempre: da qualificato ai tornei Uefa, da partecipante alle sole competizioni nazionali, da skipper in momenti di crisi o di grande festa, da armatore in grado di sobbarcarsi grandi esborsi economici in campagna acquisti. E forse proprio il suo carattere particolare gli ha consentito di resistere. E in Italia, al netto della crescita dell’Atalanta di Percassi, è l’unico presidente vincente che ci è rimasto. Gli altri…o non hanno vinto o sono scomparsi”.
Il collega Carlo Alvino, tra l’altro ex telecronista-tifoso Sky, qualche giorno fa ha argomentato sul fatto che, per come si è sviluppato l’ultimo mezzo secolo di calcio, compresi i tanti cambiamenti che ci sono stati su vari aspetti, sia di campo sia di ambito extra-campo, Corrado Ferlaino e Aurelio De Laurentiis siano stati i migliori presidenti che i tifosi del Napoli avessero potuto augurarsi nelle rispettive fasi storiche. Lei è d’accordo?
“Assolutamente sì. E con due diverse situazioni. Ferlaino ha trovato terreno fertile solo dopo aver abilmente acquistato Maradona, mentre De Laurentiis ha costruito un sistema che, per risultati ottenuti, in termini di campo e di bilancio, oggi è un modello di calcio sostenibile e vincente a livello mondiale. E lo dico da persona ‘di parte’, in quanto frequentatore assiduo del San Paolo sin dagli anni Settanta e da lungo tempo amico di famiglia dei Brancaccio (a loro volta molto vicini a Ferlaino)”.  
Si può dire che le 3 date storiche del calcio Napoli sono il “1° agosto 1926”, il “5 luglio 1984” e il “6 settembre 2004”, senza nulla togliere alla sacralità di “10 maggio 1987, “17 maggio 1989”, “29 aprile 1990”, “4 maggio 2023” e “23 maggio 2025”?
“Per me, in verità, è qualcosa di sacro assistere a ogni partita del Napoli, perché nella memoria di noi tifosi qualsiasi gara ci lascia una traccia, un significato. Poi, certo, ci sono le date epiche e quelle storiche, che negli annali hanno sancito trionfi e cambi di rotta decisivi e che lei ha elencato in modo scientifico. Confesso, però, che, dopo una deprimente sconfitta maturata negli anni Novanta sul campo del Piacenza, assisto ai match solo in tv, nonostante il fatto che non mi manchi modo per andare in tribuna stampa”. 
Le 4 bellezze dei Tricolori conquistati dai partenopei, tra differenze e analogie…
“Ognuna ha la sua particolarità. La prima è il punto di arrivo rispetto al percorso del primo triennio di Maradona a Napoli. La seconda la abbinerei al concetto di costruzione e consolidamento di una grande squadra, che Diego ha portato per mano in campo e fuori, arrivando a vincere una super competitiva coppa Uefa nel 1989, nonché un secondo tricolore e una supercoppa nazionale 12 mesi dopo.
La bellezza dello scudetto spallettiano è, invece, la prosecuzione della filosofia del bel gioco portata nel 2013 da Benitez e proseguita ottimamente nel triennio Sarri 2015-2018. E quindi, tra il 2021 e il 2023, Spalletti è stato bravissimo a creare un Napoli bello e concreto, vincendo il Tricolore con velocità e qualità di gioco, potendo disporre sì di ottimi calciatori, ma non certo di stelle di prima grandezza. La bellezza del 4° scudetto è incentrata soprattutto nella capacità aureliana di scegliere un allenatore come Conte, il quale ha trasmesso al gruppo concretezza e qualità nei momenti cruciali. Infatti, in molti sono rimasti stupiti del fatto che il Napoli, durante l’ultimo campionato 2024-25, abbia tenuto botta fino alla fine, anche dopo il sorpasso dell’Inter avvenuto nel girone di ritorno. L’analogia relativa agli ultimi due scudetti è rappresentata, quindi, dal ‘fil rouge’ degli allenatori Top che De Laurentiis è riuscito a ingaggiare”. 

Prima del Napoli, solo Juve, Inter, Milan, Torino e Bologna avevano vinto almeno 2 scudetti nell’arco di 3 campionati consecutivi di Serie A con girone unico. Come interpreta questo segnale nel contesto storico del foot ball italico?
“È il grande segnale lanciato nella storia della Serie A da un presidente che, pur avendo avuto delle piccole battute d’arresto, ha saputo imparare dalle sconfitte e ripartire velocemente, risolvendo i problemi con cruciali mosse di mercato, non ultime quelle relative alle sessioni 2025 e 2026”.
Quando, secondo lei, il Napoli ha iniziato a scucirsi lo scudetto del 2023 e quando ha avuto la sensazione che ha iniziato a ricucirselo?
“Purtroppo, se lo è scucito dopo poche giornate del campionato 2023-24 e se lo è ricucito all’ultima giornata della stagione 2024-25, col successo per 2-0 sul Cagliari. Io sono tra quelli che, durante tutta l’annata recentemente conclusa, hanno avuto il terrore che il grande sogno potesse sfumare a un metro dal traguardo”.
Quali sono state, secondo lei, le 3 migliori stagioni della storia del Napoli, bilanciando risultati e qualità delle prestazioni?
“Il Napoli di Vinicio 1974-75, col suo calcio all’olandese, era un gruppo che riempiva lo stadio ed era la prima formazione del Sud che, in termini di gioco, poteva contrastare i club del Nord. Successivamente, direi il Napoli del triennio Sarri 2015-2018, nella sua espressione di una bellezza di gioco che poi abbiamo rivisto, in modo più solido, con Spalletti. Quello di Antonio Conte, invece, è stato il Napoli più concreto ammirato fino a oggi in vita mia”.
Il 3° migliore per bellezza e risultati?
“Spero davvero che sia quello che si sta costruendo ora”.

Cosa ha fatto la differenza in quel cestistico “Napoli 82 punti, Inter 81”, punteggio scolpito nella parte alta della classifica di Serie A 2024-25?
“Su tutti, Conte e McTominay. Scott, primo scozzese della storia, insieme a Gilmour, a giocare con la maglia del Napoli, è stata la più bella scoperta fatta nel calciomercato 2024. Nei modi, il classico ragazzo semplice, della porta accanto, che, emozionato, manda un messaggio a suo padre scrivendogli che finalmente sta al “Maradona”, vicino alla statua del più grande giocatore di tutti i tempi. In campo, poi, un calciatore fantastico, che il tecnico salentino ha posizionato come mezz’ala con tanta licenza di attaccare gli spazi in area di rigore. E che dire di come si è ambientato benissimo nella complessa realtà di Napoli… Su questo, però, posso garantire che, per certi aspetti, gli scozzesi sono un po’ come noi del Sud, in quanto prendono le cose con una certa leggerezza. Se, per esempio, a Edimburgo i passanti vedono una macchina parcheggiata in seconda fila, si mettono a ridere, fanno battute, mentre a Londra fanno arrivare subito gli uomini in divisa. Insomma, penso che anche per questo spirito un po’ goliardico Scott McFràtm abbia legato molto con la squadra e la città”.
Dove può arrivare, secondo lei, questo Napoli nei prossimi anni, ipotizzando che resti mr Conte in panchina?
“Come accennavo poc’anzi, in tanti anni non ho mai visto, in Parthenope, una solidità migliore di quella del Napoli di Conte. E poi con i nuovi acquisti si stanno mettendo mattoni importanti per costruire una casa più forte. La realtà è che il Napoli ha voglia di rimanere al vertice. E vuole provare a farlo non solo in Italia, ma anche in Europa. E, grazie all’impostazione aureliana, in termini di cultura calcistica si sta rafforzando sempre di più il concetto di team rispetto al valore delle individualità”.
“Giochismo” e “risultatismo” le ritiene due definizioni calzanti o esagerate per inquadrare il calcio attuale?
“Per me, sono calzanti entrambe. Conte, ad esempio, è uno che va in campo per il risultato, sapendo, però, che, in funzione della vittoria, deve coniugare necessariamente anche elementi di qualità. Facendo un paragone con le squadre guidate da Sarri e Spalletti, magari lui non è super spettacolare, ma è comunque redditizio. Fondamentalmente, lui ha creato un equilibrio che funziona”.
Cosa lascerebbe invariato e cosa eliminerebbe il direttore Bruno nello stile del racconto sportivo dell’oggi?
“Resto ancorato al concetto del romanticismo. Per me, nel raccontare di imprese sportive ci si deve porre l’obiettivo di arrivare alla grande bellezza: un incrocio tra narrativa di campo e storia del luogo in cui l’impresa viene partorita. Esempio classico: così come il Golfo abbraccia la nostra città, il cronista abbraccia ciò che accade sul campo e ciò che va oltre il terreno di gioco. E poi, soprattutto per una città come Napoli, bisogna mantenere il senso dell’ironia. E questo lo si può fare attingendo all’enorme patrimonio che ci hanno lasciato i grandi personaggi che Parthenope ha espresso. Una cosa da non fare è scendere sul piano delle lacrime. E poi vanno stemperati al massimo concetti, talvolta borderline, che arrivano da alcune frange del tifo”.
Perché il calcio, nonostante tutti i problemi di cui è zavorrato, resta lo sport principale in Italia, ascolti televisivi compresi?
“Perché è ritualità, campanilismo, bellezza trascendente, in quanto attraversa luoghi ed epoche. Sui Social si vedono video di ragazzini che, pur abitando in zone povere del Mondo, si divertono con una palla su piazzole sterrate, cercando di imitare le giocate dei campionissimi viste, magari, su You Tube. Uno dei problemi del nostro calcio, però, riguarda la cultura sportiva. C’è bisogno di far crescere questo aspetto. Se si migliora in tal senso, allora si ha anche un cambio di mentalità dei tifosi allo stadio. Infine, c’è anche un altro elemento. Noi italiani ci esaltiamo vivendo alla tv i momenti belli nel tennis, nello sci, nell’atletica e in tutte le discipline olimpiche, ma poi, spentisi i riflettori su grandi eventi di altre discipline, torniamo a essere legati al nostro calcio. Che sia Nazionale o che siano squadre di club non fa molta differenza. Diciamo che è lo sport che ci riempie le giornate in vario modo”.
Calendari saturi di partite. Attualmente, ogni professionista di un top club di Serie A gioca, mediamente, 50-60 gare a stagione. A chi giova realmente questo andazzo, secondo lei?

“Certamente giova alle televisioni, però va detto che, se tu Uefa o Lega Calcio, fai pagare ai network cifre esorbitanti per i diritti tv, l’operatore che investe sul tuo pacchetto deve rientrare rispetto all’esborso fatto. E quindi, per prima cosa, deve mettere insieme un palinsesto annuale che possa fidelizzare l’attenzione dei telespettatori-abbonati e anche di quegli appassionati che, pur avendo poco tempo nell’arco della loro giornata, trovano utile scaricare delle ‘app’ sui loro smartphone per seguire gli eventi preferiti. E poi ovviamente c’è il discorso dei ricavi legati alla pubblicità. Più cresce la platea dell’audience complessiva (pay-tv, canali social, sito web ufficiale, numero di app scaricate dagli utenti) e più è facile intercettare investimenti pubblicitari. Poi, restando in tema, non ci dobbiamo scandalizzare se alla radio non esiste più ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ con 8 partite in contemporanea. Ormai si va sempre di più verso l’applicazione del modello americano NBA nella produzione e nella visione di determinati eventi sportivi. Del resto, oggi in discipline come il tennis si gioca 11 mesi l’anno; nell’atletica leggera, grazie anche alla creazione del circuito ‘Diamond League’, i campioni si sobbarcano decine di meeting all’anno. Nello sci, gli atleti di coppa del Mondo ormai, tra test sui materiali, preparazione atletica, allenamenti sui ghiacciai e gare, lavorano 11 mesi l’anno. Nel rugby, i giocatori australiani partecipano maggiormente a eventi internazionali che nazionali. Addirittura, in Lombardia i ‘canguri’ hanno creato una loro base operativa. Insomma, siamo in una fase in cui lo sport si sta evolvendo”.
A proposito di evoluzione, nel calcio sono stati introdotti, dal 2012 a oggi, Goal Line Technology, sala VAR e relativo protocollo, fuorigioco semiautomatico e body-cam arbitrali. In un Paese come l’Italia, in cui campanilismi, dietrologie e complottismi sono ‘pane quotidiano’, ritiene che tali innovazioni possano apportare dei benefici?
“Tutto è migliorabile, ma senza la tecnologia non si va avanti. E su ogni disciplina in cui si decide di applicarla, a monte c’è una grande opera di studio. Poi, per poterla usare durante gli eventi, bisogna fare prima un’ampia formazione sugli operatori, sia quelli più giovani sia quelli meno giovani. Insomma, non sono cose velocissime da attivare”.
Bilanci e solidità economica: nel calcio italiano di Serie A, chi non ha i conti in ordine sembra avere gli stessi diritti di chi li tiene in maniera perfetta. Non è che, attraverso la materializzazione di un trend del genere, si sacrifica l’etica sportiva in favore dello “show business”, con buona pace degli operatori che puntualmente danno “a Cesare quello che è di Cesare”?
“Purtroppo, è drammaticamente così. Al momento, si cerca di salvare ‘baracca e burattini’, come si dice a Napoli. Certo, ci sono organi etici e di controllo, però bisogna partire dalla testa. E affinché non si creino squilibri, Lega Calcio e FIGC sono chiamate a essere all’altezza delle rispettive funzioni”.
A proposito di foot ball, palazzi e potere, Diego Armando Maradona, durante il suo ultimo discorso allo stadio “Bombonera” di Buenos Aires il 10 novembre 2001, disse: “La pelota no se mancha” (tradotto, “Il calcio non si macchia”). Una frase “spartiacque”, una sorta di “testamento etico” a totale difesa di valori sani che devono rimanere in eterno. Lei ha conosciuto la persona Diego Maradona? Che impressione ne ha tratto?
“L’ho conosciuto quando abbiamo cominciato il progetto Sky Sport. Il nostro comune amico era Salvatore Bagni, che all’epoca era nostro opinionista sul calcio. Nei momenti che precedettero la sua entrata negli studi, si respirava un’attesa simile a quella dell’arrivo del Presidente della Repubblica. Ciò che mi colpì fu, innanzitutto, il suo senso di profondissima umanità. Quando ci presentarono, mi abbracciò in un modo che mi fece avere l’impressione che ci conoscessimo da una vita, nonostante fossimo entrati in cordialità da qualche istante. Chissà, forse Bagni gli confidò che io ero tifoso del Napoli, ma di questo non ne sono sicuro. Di fatto, riuscì a farmi godere incredibilmente di quell’abbraccio. Ma, a parte ciò, mi colpì il fatto che, con grande umiltà, andò a salutare e ad abbracciare tutti, cameramen compresi, un po’ come se Federer, alla fine di una partita, andasse a salutare e ad abbracciare tutti i raccattapalle. Quindi, fuoriclasse assoluto in campo, ma anche di sensibilità umana straordinaria. E poi va detto che era anche un personaggio sagace e dalla dialettica accattivante, che esternava in modo schietto concetti estremamente intelligenti su tanti ambiti, sono solo sportivi…”.
Nella sua carriera ha conosciuto e intervistato decine di medagliati olimpici e mondiali. C’è qualcuno, a parte Maradona, che le ha lasciato un segno da fuoriclasse assoluto?  

“Premesso che i cosiddetti fuoriclasse prima nascono con delle doti particolari e poi lavorano tantissimo per esprimersi a determinati livelli sul palcoscenico dello sport, debbo dire che chi mi ha impressionato di più in tutto è stato Gianluca Vialli. Quando andai a incontrarlo nel suo ufficio di Londra per proporgli una collaborazione con Sky Sport, mi accorsi che era estremamente studioso di calcio. Visionava filmati, faceva analisi, archiviava report. Insomma, oltre che in campo, anche nella comunicazione sul football era un vero esperto. E quindi fu facile trovare un accordo di proficua cooperazione. In poche parole, lo sportivo perfetto. Certo, momenti che mi hanno emozionato tantissimo sono stati gli ori di Alberto Tomba, quelli di Marcell Jacobs, gli Slam di Sinner, il capolavoro della Nazionale guidata dal commissario tecnico Marcello Lippi ai Mondiali di Germania 2006, però, se dovessi sintetizzare l’essenza dello sport in una foto, tornerei all’abbraccio dell’11 luglio 2021 a Wembley tra Gianluca Vialli e il commissario tecnico Roberto Mancini, divenuti campioni (seppur rivestendo altri ruoli) su quel campo di calcio che il 20 maggio 1992 aveva riservato a entrambi la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona ai tempi supplementari”.
Concludiamo col gioco del “Se fosse…”, incentrato su 3 domande. Se Giovanni Bruno fosse in un ruolo di vertice del calcio italiano, cosa si proporrebbe di fare nel breve e nel medio termine?
“Sistemerei i conti. Sarebbe la prima cosa in agenda. E poi cercherei di realizzare un sogno, lavorando seriamente sulla crescita della cultura dello sport. Un tifo più corretto, più somigliante a quello del rugby anglosassone, permette di unire, di creare gemellaggi tra le tifoserie, superando gli steccati dei campanilismi in nome del comune amore per il calcio. Bisogna dire ‘BASTA!’ a insulti di matrice territoriale negli stadi. Non se ne può più”.
E se fosse a capo del Comitato Olimpico Nazionale?
“Lavorerei a stretto contatto con gli atleti, metterei loro davanti a tutti e utilizzerei le loro competenze per potenziare la rete territoriale degli impianti, perché è ciò che realmente manca in Italia”.
Se fosse l’allenatore del Napoli All Time, quale XI metterebbe in campo e con quale sistema di gioco?
“In porta, Zoff; difensori, Di Lorenzo, Bruscolotti e Krol; centrocampisti, De Napoli, Juliano, Bagni e McTominay; attaccanti, Maradona, Kvara e Higuain”.
Luigi Gallucci

(Foto Giovanni Bruno: fonte https://www.facebook.com/photo.php?fbid=2206930012880333&set=t.100005266448276&type=3&locale=it_IT )

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