Tribuna Mergellina, intervista in esclusiva
a Carlo Alvino, “voce passionale” molto nota
nella narrazione quotidiana sul Calcio Napoli /

Carlo Alvino, ideatore e conduttore di format radiotelevisivi giornalieri sulle emittenti TeleClubItalia e Radio Kiss Kiss Napoli
Se un medico sottoponesse il sessantacinquenne napoletano di Fuorigrotta Carlo Alvino all’analisi del sangue, uscirebbero solo “glubuli azzurri”. Scherzi a parte, “Carletto”, come lo chiamano gli amici, dall’inizio degli anni Ottanta a oggi vive – da cronista, da cultore del calcio e da tifoso – tutte le partite e tutte le vicende dolci e amare legate al Napoli. Insomma, una sorta di Carlo Pellegatti versione partenopea. Tra i primi, in Parthenope, a dare la notizia dell’acquisto di Maradona la sera del 30 giugno 1984 attraverso l’emittente regionale Telelibera 63, ha proseguito la sua carriera in ambito campano da giornalista libero professionista e attualmente coopera, in maniera continuativa, con “Radio Kiss Kiss Napoli”, “One Football (progetto web)” e “Tele Club Italia” ed è ospite, come opinionista, in varie trasmissioni sportive a carattere regionale. È con lui che facciamo un’ampia disamina sulle due epopee di trionfi azzurri, tra ricordi, aneddoti e riflessioni sul calcio di ieri e di oggi.
Napoli 3 ottobre 1926, campionato di 1^ Divisione Nazionale, prima giornata: A.C. Napoli-Internazionale 0-3. Da quel giorno…e fino all’Era Maradona tantissimi bocconi amari contro i neroazzurri, tra campionato e coppa Italia. Poi, nel 1996-97, una “fiammata” a sorpresa. Gli azzurri eliminano dalla coppa nazionale l’Inter in semifinale. Nell’epoca-De Laurentiis, il trend storico per alcuni anni si raddrizza sempre di più, fino al punto che “gli scugnizzi del Dela” riescono a sfilare al Biscione addirittura uno scudetto. Lei ritiene che, col risultato di quest’anno, siano stati pareggiati, in qualche modo, i conti col destino?
“Purtroppo, i conti non li abbiamo pareggiati, anche alla luce di angherie e torti subiti nel corso degli anni. In tale contesto, brucia ancora la vittoria per 2-1 dell’Inter, a San Siro, contro il Napoli, nel campionato 1970-71; un successo maturato in un contesto poco chiaro e con i neroazzurri che, grazie a quei due punti conquistati a marzo, nel girone di ritorno, contro i partenopei, diretti rivali per lo scudetto, consolidarono la loro posizione ai vertici della classifica, prima di conquistare il loro 11° Tricolore, davanti ai cugini del Milan (2°) e al Napoli (3°). Purtroppo, troppe volte siamo stati battuti dai nerazzurri. Quindi, ci vorranno altri grandi successi per mettere tutte le cose al loro posto”.
Si può dire che le 3 date storiche del calcio Napoli sono il “1° agosto 1926”, il “5 luglio 1984” e il “6 settembre 2004”, senza nulla togliere alla sacralità di “10 maggio 1987, “17 maggio 1989”, “29 aprile 1990”, “4 maggio 2023” e “24 maggio 2025”?
“Sostanzialmente, sì, anche se faccio fatica a non mettere il 10 maggio 1987. Le date che lei ha scelto sono scolpite nel cuore e nella mente di ciascuno di noi; solo che il 1° scudetto ha un sapore che non si scorda mai, perché sancisce il momento del riscatto di una città intera attraverso il calcio. Se mi consente, quindi, almeno questa del 1° scudetto, la aggiungerei. E poi “10, 5 e 87”, per noi partenopei, amanti del Lotto, suona bene pure come terno secco, da giocare a prescindere da tutto”.
Parlando di date e Tricolori, non possiamo non chiederle quali sono le differenze e quali le analogie tra i due presidenti azzurri scudettati: Corrado Ferlaino e Aurelio De Laurentiis…
“Certamente, entrambi intelligenti, vincenti e, soprattutto, coraggiosi, perché il mettersi alla guida di un club come il Napoli comporta l’assunzione di un sacco di responsabilità sotto tutti i punti di vista, data la platea molto ampia di tifo e dato anche il modo viscerale in cui la città vive il football. Caratterialmente, però, li definirei due tipi agli opposti. Ferlaino, come presidente, era una persona tendenzialmente sfuggente, che non amava apparire molto, mentre l’altro è uno che fa dei riflettori, della comunicazione, il suo mantra. Secondo me, hanno interpretato il ruolo in modo diverso, anche perché, in alcuni aspetti, il calcio è cambiato nel corso degli ultimi 50 anni, però, in conclusione, dico che Ferlaino, per l’epoca 1970-2000, è stato il miglior presidente che abbia potuto avere il Napoli, tanto è vero che ci si è ritrovati Maradona perché c’era lui, un presidente tifosissimo che faceva parte di un sistema politico democristiano all’epoca molto influente. De Laurentiis, invece, è stato il classico presidente-imprenditore che, col passare degli anni, è diventato sempre più il 1° tifoso della squadra. E quindi, secondo me, noi napoletani siamo fortunati, perché in entrambe le epoche abbiamo avuto il miglior presidente possibile per la nostra, complessissima, piazza”.
Quali sono state, secondo lei, le 3 migliori stagioni della storia del Napoli, bilanciando risultati e qualità delle prestazioni?
“In ordine cronologico, resto legato sentimentalmente innanzitutto alla stagione 1974-75. In quel campionato, mister Luis Vinicio portò la squadra al 2° posto, evidenziando quel cosiddetto “calcio totale” (all’olandese) mai visto prima in Italia. Poi è arrivata, grazie alla migliore versione del Maradona azzurro, l’annata 1986-87, in cui i partenopei hanno dominato, vincendo tutte e due le competizioni nazionali (scudetto e coppa Italia, in quanto all’epoca la supercoppa non era stata istituita). Infine, il mio 3° Napoli preferito è stato quello messo in campo da Luciano Spalletti, che in alcune gare della stagione 2022-23, sia in Serie A sia in Champions, è stato davvero devastante per intensità agonistica e qualità di manovra”.
Cosa ha fatto la differenza in quel cestistico “Napoli 82 punti, Inter 81”, punteggio scolpito nella parte alta della classifica di Serie A 2024-25?

Spogliatoi stadio San Paolo, 29 aprile 1990: Alvino intervista Diego Maradona, appena laureatosi campione d’Italia per la 2^ volta con la squadra partenopea dopo il 1° trionfo datato 1987 (Foto archivio privato Alvino)
“Per correlarci al basket, potrei dire che l’ha fatta la mitica “Mano de D10S”. Diego, dall’alto, ha fatto metaforicamente “canestro” in determinate circostanze, vedi le partite in contemporanea “Parma-Napoli 0-0” e “Inter-Lazio 2-2”, valide per la 37^ giornata. In quella serata – oserei dire in maniera trascendente – si è materializzata di nuovo “La mano de D10S”. Del resto, sarebbe stata un’ingiustizia sportiva perdere un Tricolore come quello di quest’anno, dopo che la squadra azzurra è stata, con pieno merito, in testa al campionato per il maggior numero di giornate rispetto al totale dei 38 turni”.
Trascendenza a parte, c’è stato un momento particolare, durante l’ultimo campionato, in cui lei ha avuto la sensazione che la vittoria finale non sarebbe sfuggita al Napoli?
“La partita in cui ho capito che avremmo vinto il campionato è stata Atalanta-Napoli 2-3. Il modo in cui è maturato quel successo sul difficile campo di Bergamo mi ha fatto percepire che la squadra aveva assimilato, ormai, il classico spirito contiano basato sul non volersi accontentare del mezzo risultato, del voler lottare per i 3 punti fino al 95°. E da quella sera in avanti, non ho mai dubitato sul trionfo finale”.
Dove può arrivare, secondo lei, questo Napoli nei prossimi anni, ipotizzando che resti mr Conte in panchina?
“Il Napoli, con mr Conte e con questa proprietà, si candida per lottare stabilmente per lo scudetto. Inoltre, conoscendo le ambizioni di De Laurentiis, ipotizzo che il Napoli voglia rivestire panni da protagonista anche in Champions, facendo un cammino lungo pure nella massima competizione europea per club”.
Le diverse bellezze dei 4 tricolori conquistati dai partenopei…
“Il primo scudetto non si dimentica, ma la gioia che mi ha dato il 4°, per la lotta punto a punto contro l’Inter, è stata indescrivibile. Se pensiamo al fatto che, a inizio stagione, l’obiettivo era centrare un piazzamento per tornare in Europa e al fatto che, per un intero campionato, abbiamo avuto i neroazzurri sul collo, il 4° tricolore è stato davvero notevole. Nel complesso, i 4 trionfi sono stati tutti belli, ma, attenzione, quello più bello …sarà il prossimo”.
Oggi il Napoli è una tra le 6 squadre ad aver conquistato 2 scudetti nell’arco di 3 campionati consecutivi nella Serie A con girone unico. In precedenza, dal 1930 al 2024, ci erano riuscite solo Inter, Juve, Bologna, Torino e Milan. Cosa significa tutto ciò, secondo lei?
“È un dato molto significativo, perché testimonia in modo indiscutibile che il Napoli è da considerare, a tutti gli effetti, una grande del calcio italiano. E poi il dato è, per taluni aspetti, sorprendente, ma al contempo indicativo, di come a Napoli si possa trionfare rispettando le regole. Insomma, è la testimonianza di un lavoro straordinario. Siamo in presenza di un modello. Grazie alla gestione De Laurentiis, viene dimostrato a tutti il modo in cui si devono coniugare, nel calcio, imprenditoria sana e risultato sportivo. E altri club dovrebbero fare solo “copia e incolla”, affinché tutto il foot ball italiano si possa risollevare davvero”.
Bilanci e solidità economica: nel calcio italiano di Serie A, chi non ha i conti in ordine sembra avere gli stessi diritti di chi li tiene in maniera perfetta. Non è che, attraverso la materializzazione di un trend del genere, si sacrifica l’etica sportiva in favore dello “show business”, con buona pace degli operatori che puntualmente danno “a Cesare quello che è di Cesare”?
“Questa è una giusta considerazione, molto pertinente, perché chi opera nel calcio facendo debiti su debiti è, a mio avviso, paragonabile a chi fa uso di sostanze per alterare le proprie prestazioni. Non è un doping fisico, ma amministrativo. E quindi, per garantire la massima trasparenza di una competizione, credo sia opportuno intervenire in modo più forte a livello istituzionale. Non mi sembra per niente giusto che ogni anno si debba lottare contro chi ha accumulato 700-800 milioni di debiti; anche se va detto pure che molti di questi debiti nascono per placare la sete di successo di una parte di tifoseria che non ha cultura sportiva. E qui arriviamo a un altro tema: bisogna educare i tifosi, bisogna spiegare loro che non si può vincere sempre. E in questo il modello resta la Gran Bretagna, dove la gente va allo stadio perché, per prima cosa, ama il foot ball e poi, ovviamente, pure perché si riconosce nell’identità di un club in particolare. E poi, in tale contesto, c’è ancora un altro aspetto da focalizzare. Se si tifa per una società che ogni anno accumula debiti su debiti, bisogna essere consapevoli che si sostiene un club marcio. E quindi, in questi casi, quantomeno le persone più intelligenti dovrebbero prendere temporaneamente le distanze da quel determinato team. E quindi, su tale fronte, il mio messaggio, conclusivo e propositivo, vuole essere il seguente: si sbaglia di grosso, quando si vuole spingere una società di calcio a fare il passo più lungo della gamba”.
Calendari saturi di partite. Attualmente, ogni professionista di un top club di Serie A gioca, mediamente, 50-60 gare a stagione. A chi giova realmente questo andazzo, secondo lei?
“Su questo tema, a mio avviso, c’è un’ipocrisia di fondo. Tale trend, purtroppo, giova a tutti, perché coloro che si lamentano delle troppe partite in programma sanno benissimo che il gran numero di gare disputate in stagione permette di mantenere il cosiddetto ‘carrozzone-calcio’, soprattutto attraverso gli incassi dei diritti televisivi da parte dei club. E sempre il ‘carrozzone’ consente a tanti addetti ai lavori di godere di trattamenti super favorevoli a livello economico, rispetto a un qualsiasi lavoratore «comune mortale»”.
Calcio e tecnologia: dall’orologio speciale “Goal Line Tecnology” 2012, all’attivazione delle “Body Cam” arbitrali 2025, passando per la creazione della sala “VAR” 2017 e l’attivazione del fuorigioco semiautomatico 2022. Che idea si sta facendo di queste trasformazioni nel mondo del football?
“Sono assolutamente favorevole all’uso della tecnologia, perché gli strumenti già adottati possono aiutare gli arbitri a commettere meno errori; il tutto, nell’ottica di una sempre maggiore trasparenza. E aggiungo anche che sono favorevole all’introduzione del tempo effettivo, affinché nessuno possa speculare sulle interruzioni di gioco dovute a falli e quant’altro. Poi è chiaro che dietro la macchina c’è l’uomo, ma posso dirvi che in Spagna, dove c’è il VAR ma non la Goal Line Tecnology, ogni settimana si fanno molte più polemiche che in Italia. Mi dispiace solo quando, per responsabilità dell’uomo che sta dietro la macchina, in determinate partite gli strumenti vengono utilizzati poco e male”.
E sull’interpretazione del Protocollo VAR?
“L’IFAB e la FIFA dovrebbero lavorare alla stesura di un protocollo che possa essere uniforme, cioè senza margini di discrezionalità interpretativa da parte degli arbitri di turno. Mi piacerebbe, inoltre, se ci fosse un protocollo in grado di far intervenire gli arbitri su una casistica più ampia rispetto a quella prevista oggi, magari introducendo anche in Serie B e Serie A i “VAR a chiamata”, sperimentazione che, dallo scorso agosto, si sta rivelando molto utile in Serie C, in quanto permette a ogni allenatore di chiedere la verifica-video di almeno 2 azioni dubbie a partita”.
All’inizio di questa intervista abbiamo accennato a una sua connotazione particolare in ambito giornalistico. A questo punto, la domanda nasce spontanea: quando lei va allo stadio e accende il microfono in tribuna stampa, in che modo mette d’accordo l’Alvino cronista e il Carlo tifoso?
“Credo che l’animo del cronista-tifoso sia un mix esplosivo ma fondamentale, perché, proprio attraverso la passione, s’innesta un plus che permette di realizzare un racconto sportivo migliore rispetto ai parametri cosiddetti standard. Da un lato, infatti, non devi perdere mai di vista le regole del tuo lavoro, raccontando quello che vedi, quello che accade in campo, cioè il fatto in sé stesso. Dall’altro, però, sai che una partita di calcio è anche un susseguirsi di emozioni. E quindi, nel momento in cui la racconti con distacco, in modo freddo, a mio avviso, forse, non adotti la soluzione migliore. Il tema specifico, però, si presta a interpretazioni opinabili, perché so bene che ci sono persone che criticano chi racconta il foot ball con enfasi e passione, però ci sta tutto, perché siamo in democrazia e ognuno ha il suo stile. Poi alla fine è l’appassionato che sceglie su quale canale seguire la partita”.
Giochismo” e “risultatismo” le ritiene due definizioni calzanti o esagerate per inquadrare il calcio attuale?
“Secondo me, sono assolutamente fuori luogo. Sono definizioni che chi ama il calcio sa che sono false. Il risultato, nella stragrande maggioranza dei casi, è figlio della prestazione. Raramente una squadra può vincere giocando male, soprattutto se si parla di un campionato lungo ben 9 mesi e 38 giornate. In un torneo, dove ci sono meno partite, ci può scappare la sorpresa, ma uno scudetto lo si vince solo se si gioca bene”.
Sul Calcio Napoli, durante ogni stagione, si nota una tendenza a muovere critiche e a trovare il pelo nell’uovo anche quando non ce ne sarebbe motivo, in quanto i risultati del campo e i bilanci indicano che il progetto De Laurentiis, dal 2004 a oggi, è solidissimo.
“Dunque, io reputo che, su questo punto, ci sia da fare un distinguo. Penso che le poche osservazioni fatte da alcuni cronisti, competenti e veri innamorati del Calcio Napoli, abbiano un peso specifico decisamente superiore rispetto alle numerose zizzanie messe in giro ad arte da soggetti che, in ambito social mediatico, sono mossi solo da sentimenti di antinapoletanità o ostilità nei confronti dell’attuale presidente De Laurentiis. Per tutto il resto, dovrebbero occuparsi gli enti deontologicamente preposti”.
Argomento finale, Diego Armando Maradona. Chi era, secondo lei, il “Pelusa” oltre il campo di calcio? A tal proposito, potrebbe raccontarci qualche aneddoto ‘extracampo’?
“Diego, al di fuori del campo è stato, in assoluto, la persona più generosa che io abbia conosciuto. E non parlo solo di elargizioni economiche verso persone disagiate, ma anche di silenziosa sensibilità d’animo. Lui, 1 volta a settimana, amava andare in un orfanotrofio coordinato da suore in zona Marechiaro, entrandovi in modo mascherato per restare in pieno anonimato. Poi, una volta arrivato, appena vedeva tutti i bambini intorno a sé, si toglieva la maschera, scatenando, in quel modo, un effetto sorpresa e una grande gioia in quei fanciulli. Questo è un aneddoto, ma anche una palese testimonianza che Diego amava fare del bene senza i riflettori puntati addosso. Poi c’è anche un altro aneddoto, sempre scherzoso, ma privato. Poiché io sono nato a giugno del 1960 e lui a novembre dello stesso anno, quando ci incontravamo, io a volte lo prendevo in giro, dicendogli che mi doveva portare rispetto, perché ero più grande di lui; solo che, quando facevo questa battuta, lui cominciava a ridere in modo esagerato. E ciò testimonia ulteriormente la schiettezza, la goliardia e la naturalezza dell’uomo. Infine, sull’aspetto del Diego persona, debbo aggiungere un’ultima cosa, ma stavolta alquanto seria. Secondo me, lui era un vero rivoluzionario. Per quei tempi, era un uomo “antipotere”, “antisistema”. E anche quando, da uomo di libero pensiero, ha dovuto incassare i colpi sferrati dal Potere nei suoi confronti, non ha mai abbassato la testa davanti a nessuno. Ecco, forse, proprio per questo, il Maradona uomo è stato addirittura più grande del Diego calciatore, che a sua volta resta il più grande della storia”.
Luigi Gallucci