Tribuna Mergellina – Interviste post 4° scudetto
LA SCHEDA /
Luca Cerchione, 36 anni, direttore dell’emittente “1 Station Radio” con sede a Somma Vesuviana, in provincia di Napoli, e imprenditore nel settore del fitness.
L’INTERVISTA /
Cosa rappresenta Aurelio De Laurentiis, dal 2004 a oggi, per Napoli Città e per il Calcio Napoli?
“Dal 2004 ad oggi, Aurelio De Laurentiis non è stato soltanto il presidente del Calcio Napoli, ma anche un fenomeno sociale, un punto di riferimento, un catalizzatore di consensi e polemiche. La sua storia alla guida del club azzurro è indissolubilmente legata a quella della città, che in lui ha trovato una figura capace di restituire dignità dopo il buio del fallimento. In vent’anni, De Laurentiis ha costruito un Napoli solido, competitivo, capace di imporsi in Italia e in Europa. Ha riportato gli azzurri in Champions League, ha regalato trofei e, soprattutto, gli Scudetti del 2023 e 2025: un sogno che mancava da oltre trent’anni e che ha fatto esplodere la città in una festa senza precedenti. Per Napoli, ADL ha rappresentato l’orgoglio ritrovato, il segnale che anche una piazza del Sud può tornare a dettare legge nel calcio che conta. Eppure, accanto ai meriti, restano le contraddizioni. De Laurentiis ha gestito il Napoli come un’azienda, con un rigore finanziario spesso mal digerito dal popolo azzurro. Non ha fatto mai sconti a nessuno. E questo lo ha reso una figura divisiva: amato da chi gli riconosce la salvezza e la crescita del club, contestato da chi avrebbe voluto più coraggio, fino al trofeo del 2023; ma, dal 4 maggio di 2 anni fa in poi, anche i più scettici hanno dovuto ricredersi. Ha vinto il Napoli, il suo Napoli; ha vinto lui. In definitiva, Aurelio De Laurentiis è stato – ed è ancora – il presidente che ha cambiato il destino del Napoli. Una figura ingombrante, carismatica, che ha segnato un’epoca e che resterà comunque al centro della storia della città e della sua squadra. Il Napoli più vincente di ogni epoca porta il suo nome. Cosa manca? Lasciare qualcosa alla città: dunque, avanti tutta col progetto del nuovo centro sportivo”.
Quali sensazioni le hanno lasciato due scudetti vinti in 24 mesi?
“Vincere due scudetti in ventiquattro mesi mi ha lasciato sensazioni contrastanti, ma profondissime. Da un lato l’orgoglio: il Napoli è riuscito laddove nessuno avrebbe mai scommesso, dimostrando che questa piazza può vivere stabilmente ai vertici del calcio italiano. Non è un episodio isolato, non è un miracolo passeggero: due tricolori così ravvicinati certificano l’esistenza di un progetto solido, capace di resistere alle turbolenze e alle partenze illustri. Dall’altro lato, resta la consapevolezza di un paradosso: Napoli è una città che vive di emozioni e spesso fatica a trasformare il successo in continuità. Ogni scudetto ha avuto il sapore dell’impresa epocale, dell’evento storico, ma al tempo stesso ha messo a nudo i limiti strutturali di un ambiente che ancora non ha imparato a godersi la vittoria senza lacerazioni interne. La sensazione più forte, però, è una: il Napoli non è più soltanto la squadra di Maradona, ma una realtà capace di scrivere pagine nuove e autonome della sua storia. Due scudetti in 24 mesi significano che quel sogno che sembrava irripetibile è diventato possibile, e che questa città ha finalmente trovato la consapevolezza di potersi sedere al tavolo delle grandi. La stagione 2025-26 sarà quella della consapevolezza e della definitiva maturità: crediamoci”.
Quando, secondo lei, il Napoli ha iniziato a scucirsi dalla maglietta lo scudetto conquistato nel maggio 2023 e quando, invece, ha avuto la sensazione che stesse per ricucirselo a soli 24 mesi di distanza…
“ll Napoli ha iniziato a scucirsi lo scudetto dalla maglia praticamente subito dopo averlo conquistato nel maggio 2023. Le prime crepe sono arrivate già in estate: la scelta contestata di Garcia, la gestione del mercato, la sensazione che non ci fosse un piano chiaro per difendere quel titolo storico. In poche settimane si è passati dall’euforia di un popolo intero alla percezione di un club che stava smantellando le proprie certezze, anziché rafforzarle. E il campo ha confermato quei timori: confusione tecnica, instabilità societaria, calciatori smarriti. La stagione post-scudetto è stata la fotografia di un Napoli che si stava spogliando della sua corona. Eppure, il calcio ha una forza straordinaria: sa sorprendere, ribaltare, restituire speranze quando sembra tutto perduto. Il momento in cui ho avuto la sensazione che il Napoli potesse ricucirsi addosso lo scudetto ha coinciso con la firma di Antonio Conte, forse l’unico personaggio al mondo più ingombrante del presidente De Laurentiis, ma altresì vincente. In sostanza, il titolo del 2023 se lo è scucito quasi subito per errori di programmazione. Ma lo stesso club, con un percorso complicato e sofferto, è riuscito a ricucirsi addosso un nuovo scudetto, dimostrando che la sua forza non è solo tecnica o tattica, ma anche – e soprattutto – identitaria. Il Napoli ha imparato che può cadere e rialzarsi… e che vincere due titoli in così poco tempo non è un caso, ma la testimonianza di un ciclo che resterà nella storia, in quanto nato dal riconoscimento dei propri errori e dalla ricerca del rimedio agli stessi”.
Cosa ha fatto la differenza in quel cestistico punteggio di classifica “Napoli 82 punti, Inter 81”?
“Quel ‘cestistico’ punteggio di classifica — Napoli 82 punti, Inter 81 — non è un dettaglio numerico: è la fotografia di cosa abbia fatto davvero la differenza. A decidere lo scudetto non è stata la superiorità assoluta in rosa, perché l’Inter resta la squadra più attrezzata d’Italia. Non è stato nemmeno il blasone o il peso politico, elementi che a Milano non mancano mai. La differenza l’ha fatta la fame. Il Napoli è arrivato più leggero, più libero mentalmente, meno condizionato dalle pressioni di chi ha l’obbligo di vincere. Ha trasformato ogni partita in una finale, facendo dei ‘campi minori’ il proprio fortino, tranne qualche battuta a vuoto registratasi nel girone di ritorno. L’Inter, al contrario, ha lasciato tanti punti pesanti per strada, tradita sistematicamente proprio nei momenti in cui avrebbe dovuto confermare la sua forza. C’è poi un altro aspetto: la compattezza emotiva. Il Napoli ha ritrovato quell’alchimia tra squadra, città e tifoseria che riesce a spostare gli equilibri. L’Inter, invece, ha pagato spesso il peso delle aspettative e di un ambiente che non perdona il minimo errore. Un punto soltanto, 82 a 81, ha deciso tutto. Ma dentro quel punto c’è un mondo: la differenza tra chi aveva il fuoco dentro e chi, pur avendo più mezzi, ha perso la scintilla”.
Differenze e analogie tra il Napoli di Spalletti e quello di Antonio Conte.
“Il Napoli di Luciano Spalletti e quello di Antonio Conte sono due facce diverse della stessa medaglia. Entrambi hanno regalato lo scudetto, ma con percorsi, filosofie e persino identità quasi opposte. Spalletti ha vinto con il calcio delle idee, del collettivo che esalta i singoli. Il suo Napoli era armonia, gioco fluido, dominio estetico e tecnico. Ogni partita sembrava un manifesto di calcio moderno: pressing alto, trame veloci, coralità assoluta. Era una squadra che divertiva, che incantava, che dava l’impressione di essere destinata a vincere con naturalezza. Conte ha vinto con la mentalità, con la fame, con il lavoro ossessivo sulla testa e sulle gambe. Il suo Napoli non ha mai cercato di sedurre, ma di colpire. Intensità, organizzazione ferrea, attenzione maniacale ai dettagli: è stato un Napoli più operaio, meno spettacolare di quello spallettiano, ma tremendamente efficace. L’analogia sta nel risultato finale: entrambi hanno saputo dare alla città ciò che mancava da troppo tempo, lo scudetto. La strada, però, è stata diversa: Spalletti ha fatto sognare, Conte ha fatto stringere i denti. Uno ha vinto incantando, l’altro ha vinto imponendo. In definitiva, due allenatori diversi, due filosofie lontane, ma entrambi capaci di entrare per sempre nella storia del Napoli; perché, se Spalletti ha dimostrato che si può vincere con la bellezza, Conte ha ricordato che si può vincere anche con la ferocia”.
Dove può arrivare, secondo lei, questo Napoli nei prossimi anni, ipotizzando che resti mr Conte in panchina?
“Quanto a lungo Antonio Conte resterà sulla panchina del Napoli, non possiamo prevederlo. La certezza, però, si chiama De Laurentiis. È lui che ha programmato, vinto, fallito e rivinto. Ed è a questa consapevolezza che la città deve aggrapparsi. L’obiettivo minimo, con Conte, sarà sempre competere per lo scudetto. Il tecnico non accetta mezze misure, non si accontenta dei piazzamenti, ma la continuità è il marchio di fabbrica di questo club”.
Nel calcio italiano di Serie A, chi non ha i bilanci in ordine sembra avere gli stessi diritti di chi tiene i conti in maniera perfetta. Non è che, attraverso la materializzazione di un trend del genere, si sacrifica l’etica sportiva in favore dello “show business”, con buona pace degli operatori che puntualmente danno “a Cesare quello che è di Cesare”?
“Il problema è proprio questo. In Italia, chi non ha i bilanci in ordine finisce spesso per godere degli stessi diritti di chi, al contrario, tiene i conti sotto controllo con fatica e sacrificio. È una stortura che mina le basi dell’etica sportiva, perché mette sullo stesso piano chi rispetta le regole e chi le aggira. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: si finisce per premiare lo “show business”, la capacità di produrre spettacolo e audience, piuttosto che il rispetto delle norme economiche che dovrebbero garantire equità. Una dinamica che non riguarda solo il campo, ma anche la credibilità del sistema; perché, se l’idea è che, comunque, alla fine si giochi tutti nello stesso campionato, a prescindere dalla gestione, allora il messaggio che passa è devastante: conviene rischiare, conviene spendere più di quanto ci si possa permettere, perché si troverà sempre qualcuno che pagherà un determinato conto più avanti. E in questo scenario, a rimetterci sono proprio gli operatori virtuosi, quelli che danno ‘a Cesare quel che è di Cesare’: società che rispettano i parametri, che programmano, che si sobbarcano critiche e rinunce pur di restare in equilibrio. Ma, se la regola diventa quella in base alla quale chi sbaglia non paga mai davvero, allora l’etica sportiva è la prima vittima. E quindi il calcio italiano dovrebbe ripartire da qui: chi fa i conti in maniera perfetta non può avere gli stessi diritti di chi continua a vivere sopra le proprie possibilità. Se non si ha il coraggio di cambiare registro, non ci sarà mai vera concorrenza, ma soltanto una grande fiction travestita da campionato”.
Calcio e tecnologia: dalla “goal line technology” introdotta nel 2012 alle “body-cam” arbitrali attivate nel 2025, passando per il “VAR”, entrato in funzione nel 2017, e il fuorigioco automatico avviato nel 2022. Ritiene utile il supporto della “macchina” nelle competizioni di foot ball?
“Dal 2012, con la ‘goal line technology’, il calcio ha aperto definitivamente le porte al supporto della macchina. Poi è arrivato il VAR nel 2017, il fuorigioco semiautomatico nel 2022 e, da quest’anno, le body-cam arbitrali. Una rivoluzione che ha cambiato il modo di vivere le partite, in campo e fuori. La domanda è semplice: tutto questo serve davvero? E la risposta non può che essere affermativa. Il calcio moderno, per restare credibile, non poteva più permettersi errori grossolani come quelli che hanno segnato intere stagioni. Un gol fantasma, un fuorigioco millimetrico, un fallo sfuggito all’occhio umano: episodi che, senza tecnologia, diventano cicatrici eterne e seminano i germogli dei retropensieri. Detto questo, la macchina non è la panacea di tutti i mali. Anzi, il rischio concreto è che, nella ricerca della perfezione, si perda il ritmo e la natura stessa del gioco. Il VAR, ad esempio, ha ridotto le ingiustizie ma ha moltiplicato le polemiche, perché non sempre la tecnologia è stata applicata con criteri uniformi. Il fuorigioco semiautomatico ha tolto margini di interpretazione, ma al tempo stesso ha reso il calcio un fatto di centimetri e algoritmi, più che di emozioni. Le body-cam, invece, rappresentano una novità interessante: non solo trasparenza verso il pubblico, ma anche un modo per responsabilizzare arbitri e calciatori. Un passo in avanti nel rapporto di fiducia tra chi dirige e chi gioca. Sì, la tecnologia è utile e necessaria. Ma resta uno strumento, non un fine; perché il calcio deve restare spettacolo, passione, istinto. La macchina può aiutare a fare giustizia, ma non dovrà mai sostituirsi all’anima del gioco”.
Luigi Gallucci